IL SAPORE ELEGANTE DELLA MANDRAGOLA

di Paola Salvestroni

 

Al regista che voglia avventurarsi sul terreno del confronto con un classico si prospettano due possibili percorsi: uno, più facilmente praticabile, che è quello di una pedissequa imitazione dell’originale; l’altro, molto più imprevedibile nei tratti e talvolta paralizzante per gli innumerevoli sentieri in cui può diramarsi, che è quello di una rivisitazione dell’opera, di un “fare proprio” il testo, conferendogli nuova vita, nuova energia. Perché la grandezza di un classico sta proprio in questo: nell’infinità versatilità che lo rende costantemente rinnovabile e perciò sempre potenzialmente “in atto”.

Evitando d’incamminarsi sulla prima delle due vie, che lo avrebbe condotto a riproporre nella versione originale una commedia come La Mandragola (1518), dal linguaggio ormai incomprensibile per lo spettatore di oggi, Fabio Cicaloni, domenica 16 febbraio, al Teatro degli Industri di Grosseto, ha optato per la seconda, rinfrescando il capolavoro di Machiavelli, senza tuttavia stravolgerne il senso. Il regista, nonché attore nelle vesti di Nicia, ha infatti evitato sperimentalismi estremi e pericolosi, attribuendo però al testo un’ efficacissima fruibilità, grazie alla riduzione della messa in scena in un atto unico (cinque nel testo originale) e all’utilizzo di un linguaggio che, pur rispettando il “colore” del fiorentino del ‘500, è risultato facilmente comprensibile e godibile nella sua prismatica espressività. Ed è soprattutto sul piano linguistico che la rappresentazione è risultata particolarmente virtuosa: nel “parlato” del Messer Nicia di Fabio Cicaloni è infatti stato possibile ravvedere il risultato di un serio percorso di ricerca che ha portato all’individuazione di una modalità espressiva raffinata, che non mostra mai smagliature di eccesso vernacolare, pur dimostrandosi popolare, di una popolarità positiva, senza mai cadute di stile. E questo anche grazie all’abilità veramente notevole dell’attore che, a nostro avviso, si è mostrato in una delle sue prove migliori. 

Ma l’efficacia dello spettacolo, che lo ha davvero reso “cosa da smascellarsi dalle risa”, come si legge nel prologo di Machiavelli, è da ricercarsi nella perfetta sintonia tra gli attori nel loro insieme, nel puntuale rispetto dei tempi, nel ritmo mai calante del susseguirsi delle battute. Insieme a Fabio Cicaloni, Andrea Ferrari (splendido Callimaco),Nicola Draoli (istrionico nel doppio ruolo di Lucrezia e Ligurio),Fabrizio Cattarulla (straordinariamente “mimico “ nel ruolo di Sostrata) e Bernardino Tartaglia (abilissimo nell’evidenziare senza eccessi la doppia natura di Fra’ Timoteo) hanno saputo, al di là dell’umorismo esilarante, restituire il senso, questo sì davvero “originale”, della commedia machiavelliana, “satira teatrale, beffa cattiva maturata sul palcoscenico”, come ebbe a dire Carlo Emilio Gadda, che supera però i confini dello spazio teatrale per estendersi amaramente al mondo intero, a tutti gli uomini, denunciando le bassezze di cui possono essere capaci per raggiungere i loro scopi.

Degni di nota, infine, la raffinatezza e la ricercatezza delle scenografie di Andrea Ferrari e l’inserimento, nel momento della consumazione della notte d’amore di Lucrezia e Callimaco, di “Quant’è bella giovinezza”, musicata in stile rinascimentale da Fabio Cicaloni: felicissimo richiamo all’opera originale, messa in scena per la prima volta in occasione delle nozze di Lorenzo II de’ Medici, nipote del Magnifico, e in cui sono presenti ben cinque canzoni (una all’inizio e le altre alla fine di ogni atto, fino al quarto); l’esaltazione della spensieratezza giovanile, inoltre, si staglia come unica manifestazione di sincerità nel contesto di ipocrisie più o meno velate che caratterizza l’agire dei personaggi.

Se confrontarsi con un classico vuol dire farlo proprio, senza tuttavia violarlo nella sua natura essenziale, Fabio Cicaloni e i suoi teatranti sono certamente riusciti in questa impresa. A loro i complimenti che nascono dall’ammirazione per il buon gusto.