LA LOCANDIERA - FARSA PER 5 ATTORI

L’adattamento di questa Locandiera vuole riassumerne l’arte drammatica in un’ora e mezza di spettacolo, concentrando le azioni comiche e ripulendo il copione di quelle finezze care al ‘700 italiano. Nonostante il grande studio di Goldoni, che già spazza via gli orpelli di fine ‘600 e dà alle scene un capolavoro della letteratura italiana, questa Locandiera è il frutto di un intero anno di tagli e rimaneggiamenti da parte dei Teatranti, il cui risultato è un’opera misurata e in perfetta sintonia con lo spirito del suo autore.

Fulcro di questa messa in scena è il suo essere “farsa per 5 attori”, ovvero il gioco scenico in cui si avvicendano sul palco solo attori di sesso maschile. La scelta registica è quella di dare senso al ruolo femminile di Mirandolina attraverso l’artificio di un attore maschile, incrementando, in questo modo, le recitate astuzie di un personaggio che sulla scena non è mai sé stesso, tranne che nei monologhi. Mirandolina è, come Goldoni stesso la definì, una “femme adroite”, ovvero una donna scaltra, astuta, che per questa ragione recita un ruolo diverso con ognuno dei suoi pretendenti: sensuale e lasciva con il conte e il marchese, fintamente onesta con il servo Fabrizio e infine seducente e complice con il cavaliere. Tutte caratteristiche che denotano il suo narcisismo: ella ama sentirsi desiderata e vagheggiata e non può sopportare di essere disprezzata. La camaleontica Mirandolina dispiega così tutte le armi in suo possesso per soddisfare un atteggiamento tutto maschile: quello di voler far colpo sugli uomini e collezionarli come dei trofei da mettere in mostra. Doppiamente maschile, dunque, il carattere della Locandiera che, come il maschio, vuole essere emancipata, sbandierando continuamente la sua “libertà” che per l’epoca ha una chiara conno-tazione: libertà di costumi e dunque di sesso. E “sesso” è una parola che spesso torna sulla bocca di Mirandolina, come a farne il prototipo della donna del sessantotto, finalmente libera dalla schiavitù dei tabù oscurantisti del ‘600 che l’avevano relegata al lignaggio di strega, e alla quale ora il ‘700 dei lumi vuol dare invece il ruolo di rivoluzionaria.

 

Ma Goldoni vuol darci pure un affresco di una decadenza nobiliare, di un avanzamento della borghesia lavoratrice, dell’importanza del proprio lavoro come strumento di emancipazione. In questo modo il Conte d’Albafiorita, qui interpretato da un imbellettato e mondano Andrea Ferrari, è il simbolo di colui che tutto compra con il suo denaro, ma che una cosa non potrà mai comprare: la dignità e la libertà della bella locandiera. Il Marchese di Forlipopoli, ben vestito dall’imparruccato Bernardino Tartaglia, è invece l’emblema di una nobiltà decaduta, quella a cui non resta che aggrapparsi ai valori dei quali è stata per secoli fautrice, poiché non ha più soldi da sperperare. Gli resta dunque la ridicola protezione che ogni volta ricorda alla vagheggiata Mirandolina in cambio dei suoi servigi. Ma al momento opportuno in cui dovrebbe esercitarla, il Marchese non possiede né il coraggio, né una spada vera. Il tenebroso Cavaliere di Ripafratta è degnamente recitato da Nicola Draoli, che riesce a mostrare al pubblico come le furberie di Mirandolina abbiano presa anche su un uomo così rustico e selvatico che ha in odio le donne. Lo spettacolo è infatti il racconto della tenzone fra il cavaliere e la locandiera e raggiunge il suo climax nel vedere il poveretto ai piedi di lei ripudiare la sua misoginia e supplicare compassione, amore e pietà. L’ultimo uomo della protagonista è il servo Fabrizio, quello al quale ella ha più volte promesso di maritarsi, ma che sembra più un uomo fantoccio. Fabrizio Cattarulla, che ne è l’interprete, ne esalta la semplicità, la schiettezza, i valori della saggezza popolare. Il povero servitore resta tuttavia ignaro del fatto che anch’egli sia una pedina sulla scacchiera della locandiera che, proprio nello sposarlo, dichiara al pubblico l’intenzione di farlo al solo scopo di potersi assicurare con lui la sua “libertà” di donna che nessun’altra può permettersi. Nessuna come la commediante Ortensia, suo alter ego, che per soldi è costretta a concedersi al miglior offerente, diventando schiava del suo stesso sesso e qui magistralmente interpretata da un divertentissimo Fabrizio Cattarulla. Anche i suoi panni sono vestiti da un uomo, ma per ridicolizzarne i tratti, renderla fantoccio nel teatrino di Mirandolina, a cui anche la scenografia di Ferrari allude. La locandiera è doppiamente regista e manovratrice, interpretata da Fabio Cicaloni che ne è appunto anche il regista. La locanda-teatrino fa da sfondo all’arte del burattinaio che muove i suoi pupazzi imbellettati, vuoti e tutta apparenza come lo sono i personaggi di Goldoni.

QUANDO LA LOCANDA DIVENTA UN HOTEL DI LUSSO

Sabato 19 luglio, al Cassero senese, nuovo grande successo per il debutto dell’ultimo spettacolo dei Teatranti di Fabio Cicaloni. La locandiera di Goldoni, magistralmente interpretata dal versatilissimo regista, è apparsa in una veste nuova che ne ha messo in evidenza il carattere scaltro e malizioso; ottima anche la recitazione degli altri componenti la Compagnia (Andrea Ferrari, Bernardino Tartaglia, Fabrizio Cattarulla e Nicola Draoli); sempre più questi attori ci sorprendono per capacità interpretativa e umoristica. Ma a colpirci in particolar modo è stato, questa volta, l’allestimento scenico.

La scenografia di Andrea Ferrari, davvero notevole per eleganza e cura dei dettagli, ha infatti saputo ospitare in maniera simbiotica la scelta registica, condivisa da Andrea con Fabio, di un “teatrino” tutto privato, all’interno del quale l’astuta Mirandolina manovra i fili (risultava persino facile immaginarli appesi a testa e spalle degli attori) di quelle marionette che nelle sue mani finiscono per diventare i tre irriducibili spasimanti: il marchese di Forlipopoli, il conte di Albafiorita e il cavaliere di Ripafratta.

Una cornice in stile rococò si imponeva sul palco, bellissima nel suo bianco e oro e nelle maschere dipinte (necessario richiamo alla Commedia dell’arte), appagando da subito lo sguardo dello spettatore appena arrivato. Due porte laterali, una a destra e una a sinistra, consentivano entrate e uscite degli attori, garantendo così un dinamismo orizzontale, mentre lo spazio centrale d’azione scenica, volutamente ridotto, era caratterizzato dalla presenza di un piano rialzato (“cuore” della locanda) cui gli attori accedevano per mezzo di una piccola scala e che si è rivelato essere l’escamotage più efficace del quale lo scenografo si è avvalso nel tentativo, sicuramente riuscito, di rimandare alla “verticalità” dei movimenti, tipica del teatro dei burattini.

Un teatrino nel teatro, dunque, e un teatro inserito in un altro, più ampio teatro, costituito dal Cassero stesso, meravigliosa cornice storica che Andrea Ferrari ha saputo genialmente sfruttare, facendola entrare a far parte della scenografia: due drappi bianchi, sistemati a tende, calavano infatti dalla parete di fondo, contro la quale era collocato il palco, conferendo alla scena ulteriore profondità e spessore estetico.

La bravura dei Teatranti di Fabio Cicaloni non è una novità per il pubblico grossetano (e non solo), mentre sorprendente ci pare la crescente abilità  scenografica di Andrea Ferrari; ci è piaciuto, pertanto, questa volta soffermarci su di essa, anche perché a spiegare lo spettacolo nel suo contesto generale più che esaurienti risultano le note di regia di Fabio Cicaloni, alle quali rimandiamo gli spettatori.

Non possiamo però esimerci dal ringraziare questa Compagnia che con sempre maggiore difficoltà riusciamo a definire “amatoriale” e che ancora una volta ci ha regalato uno spettacolo di livello veramente alto; un  ringraziamento particolare ad Andrea che ha mostrato come una scenografia possa, talvolta, essa stessa diventare spettacolo.

 

Paola Salvestroni